Dante e i mosaici di Torcello

Penni Emanuela

Prefazione: Erio Castellucci
Non si può escludere che il rabbino e poeta Mosè Zakuto, nato ad Amsterdam nella prima metà del Seicento, abbia preso ispirazione anche dal Giudizio universale di Torcello nella composizione del suo poema L’inferno allestito. Zakuto svolse infatti il servizio di rabbino a Venezia, dal 1645 al 1673, prima di assumere lo stesso incarico a Mantova, dove morirà nel 1697. Il poema di Zakuto in realtà richiama per diversi aspetti non solo la prima Cantica della Commedia di Dante Alighieri – l’opera che diede linfa ad un filone letterario già bene attestato anche in Italia, quello del viaggio nell’oltretomba – ma anche le numerose rappresentazioni iconografiche del Giudizio universale, ispirate in particolare all’affresco giottesco della Cappella degli Scrovegni di Padova, contemporaneo alla composizione del grandioso poema dantesco. Sia Dante che Giotto, del resto, hanno certamente attinto al mosaico di Torcello, noto come la prima raffigurazione del Giudizio universale. La dott.ssa Emanuela Penni documenta questi contatti in maniera convincente e suggestiva.
La scena che sta alla base di ogni rappresentazione del Giudizio universale, letteraria o iconografica che sia, è la grande pagina del Vangelo di Matteo (25,31-46) nella quale Gesù annuncia la divisione finale tra “le pecore e le capre”, alla destra le prime e alla sinistra le seconde. Il discrimine è dato dal comportamento tenuto nella vita terrena: il bene verrà premiato e il male punito. L’esame si svolgerà sulla base di un questionario molto concreto, che riguarda il comportamento nei confronti dell’affamato, dell’assestato, dell’indigente, del carcerato, del malato, dello straniero. E la sorpresa è che lui stesso, il “figlio dell’uomo”, il “re” – così si qualifica nel testo evangelico – finisce per identificarsi con queste categorie svantaggiate: “ogni volta che avete/non avete fatto una di queste cose a uno dei miei fratelli più piccoli, l’avete/non l’avete fatto a me”. Questa prospettiva finale, nel cristianesimo, dà la misura della posta in gioco e dà la spinta ad operare il bene evitando il male. E proprio dalla pagina conclusiva della vita terrena prende corpo il pressante invito a comportarsi bene quaggiù, ad amare e praticare la giustizia, fuggendo il male, l’egoismo e l’ingiustizia. Dalle “due sorti” alla fine dei tempi, dunque, assume la propria forma la catechesi delle “due vie”, il bene e il male, attestata nella Bibbia e nella predicazione cristiana fin dalle origini. Basti pensare al versetto conclusivo del primo Salmo: “il Signore vegli sul cammino dei giusti, mentre la via dei malvagi va in rovina”.
Lo schema binario della doppia sorte, paradiso e inferno, esito del bene e del male, non è comunque un’invenzione del cristianesimo, ma incrocia diverse religioni. Basti pensare all’escatologia dell’antico Egitto, dove l’anima attende la sentenza del tribunale di Osiride che, in base al comportamento tenuto nella vita terrena, può essere di annientamento o di felicità perenne. Non mancano poi, dentro a questo schema binario, le religioni che aprono la possibilità di una “prova d’appello”, un purgatorio che costituisce una via realistica media tra la sorte fausta e quella infausta. Il quarto incomodo”, il limbo, rappresenta un’ipotesi teologica che arricchisce ma non stravolge la geografia infernale, come si vede dal IV Canto dell’Inferno di Dante.
Ed è proprio l’interpretazione della Commedia del sommo poeta, oltre che del Giudizio universale di Torcello, che si arricchisce attraverso questo nuovo volume della dott.ssa Penni, stabilendo precisi paralleli tra il poema e il mosaico. La lettura di questo libro è una gioia intellettuale ed etica insieme; intellettuale, perché permette di apprezzare e comprendere meglio due grandiose opere d’arte; etica, perché rafforza la tensione al bene che abita in ciascuno di noi. Ed è insieme e soprattutto una gioia spirituale, poiché alimenta la speranza in una eternità che, componendo giustizia e misericordia, saprà riscattare l’ingiustizia subita e portare a pienezza il bene compiuto. In definitiva il senso dell’esistenza terrena consiste nello svelamento del suo destino, del quale l’uomo non è mero spettatore, ma collaboratore attivo in questa vita.